Stefano Cucchi è un ragazzo romano che la sera del 15 ottobre 2009, a 31 anni, viene fermato e arrestato dai carabinieri Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo, Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernardo e Gaetano Bazzicalupo, che lo vedono cedere a un altro uomo, Emanuele Mancini, una bustina trasparente (che poi si scopre contenere hashish). I carabinieri lo perquisiscono e gli trovano addosso altre bustine contenenti stupefacenti e dei farmaci contro l’epilessia, malattia di cui Cucchi soffre.

Stefano viene trasferito prima nella caserma Appia e poi in quella di Tor Sapienza, in attesa dell’udienza indetta per la mattina dopo per la conferma del fermo in carcere.

La notte dell’arresto, intorno alle 4 del mattino, dalla caserma di Tor Sapienza viene chiamata un’ambulanza. Il personale sanitario confermerà in seguito che Cucchi, dalla cella, lamenta freddo e dolori, ma rifiuta di farsi visitare e si copre il viso (su cui un infermiere riesce a scorgere “degli arrossamenti” intorno agli occhi “a mo’ di eritema”).

L’indomani, al processo per direttissima presso il tribunale di piazzale Clodio, sono presenti, fra gli altri, il padre di Stefano, Giovanni e un avvocato d’ufficio. Non compare, invece, il legale di fiducia della famiglia Cucchi, in quanto non avvertito dai carabinieri. Durante l’udienza, Stefano, che mostra peraltro evidenti problemi di deambulazione, si scusa con la Corte perché non riesce a parlare “tanto bene”. Non riferisce nulla, nemmeno al padre, rispetto a quanto accaduto in caserma.

Il giudice conferma, comunque, la custodia cautelare al carcere di Regina Coeli, fissando una nuova udienza per il mese successivo.

All’ingresso a Regina Coeli, viene visitato dai medici, che riportano in una nota:

“Alla visita ‘nuovi giunti’ il detenuto riferisce “caduta accidentale ieri dalle scale”. Presente ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale periorbitaria, algia della deambulazione arti inferiori. (…) Diagnosi: lesioni ecchimotiche di natura da determinare. Indicazioni della sede del ricovero: Pronto soccorso ospedale Fatebenefratelli”.

Al Fatebenefratelli, tuttavia, mancano posti per la degenza e Cucchi viene trasferito nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini. Qui le sue condizioni fisiche peggiorano drasticamente: si rifiuta di bere e mangiare, oltre che di assumere le medicine, e il suo peso corporeo passa in sei giorni da 52 a 37 kg.

Durante i giorni del ricovero, i genitori e la sorella di Stefano tentano a più riprese di avere notizie del ragazzo, ma viene negato loro l’accesso all’ospedale. Sanno qualcosa solo il giorno della sua morte, quando un ufficiale giudiziario si reca presso la loro abitazione per notificare l’autorizzazione all’autopsia.

 

COME E’ MORTO

Stefano muore a sei giorni di distanza dal suo arresto, nella notte del 22 ottobre. Gli infermieri si rendono conto del decesso solo alle 6:15 del mattino. Sul certificato di morte scrivono: “Deceduto per presunta morte naturale”.

Tra le cause del decesso, vengono avanzate inizialmente le seguenti ipotesi: anoressia, abuso di sostanze stupefacenti, pregresse condizioni fisiche, rifiuto di cure.

E invece no: non era vero niente. Stefano Cucchi è morto per un motivo preciso: lo hanno pestato, picchiato perché non voleva che gli prendessero le impronte digitali. Prima a schiaffi, poi a spintoni, quindi a pedate nel culo. E quand’era a terra pure a calci in faccia.

Quando la famiglia di Cucchi pubblica le foto dell’autopsia a Stefano, risulta evidente che il ragazzo abbia subito dei traumi fisici, fra cui: il volto tumefatto, la mascella fratturata, varie lesioni e le ecchimosi alle gambe, un’emorragia alla vescica, due fratture alla colonna vertebrale, oltre alla palese perdita di peso.

Viene aperta un’inchiesta sulla sua morte e, il 13 dicembre 2012, durante il processo di primo grado, viene stabilito che Stefano è morto a causa delle mancate cure mediche e per grave carenza di cibo e liquidi. In merito alle lesioni riscontrate post-mortem sul corpo del ragazzo, viene affermato che potrebbero essere causate da un pestaggio oppure da una caduta accidentale, ma che “non vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva”.

 

I PROCESSI E GLI INDAGATI DEL CASO CUCCHI

Nell’ottobre 2014, il giudice assolve “per mancanza di prove” i carabinieri che avevano arrestato Stefano cinque anni prima. Il muro di silenzio da parte delle autorità rende per anni impossibile determinare chi sia il responsabile della morte del ragazzo.

Ennesimo omicidio di stato per cui nessuno ha pagato…verità e giustizia per Stefano Cucchi! 30-10 2014

Ma nel dicembre 2015, la Corte suprema di Roma riapre il caso su espressa richiesta dei familiari.

La svolta arriva nell’ottobre 2018, quando l’agente dei carabinieri Giovanni Tedesco decide di collaborare con i pubblici ministeri, confessando i dettagli del pestaggio di Stefano Cucchi da parte di alcuni membri dell’Arma. 

Il muro di silenzio, finalmente, crolla. Nel corso di tre interrogatori, Tedesco accusa i suoi colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro di aver pestato a sangue Stefano.

Questa la ricostruzione dei fatti di Tedesco:

“Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato dal banco dove ero seduto e ho detto: ‘Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete’. Ma Di Bernardo proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocando una caduta in terra sul bacino. Quindi Stefano sbatté anche la testa. Mentre era in terra D’Alessandro gli diede un calcio un faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via. Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi come stava lui mi rispose ‘Sono un pugile, sto bene’, ma lo vedevo intontito” 

Il 24 ottobre 2018, il pm Giovanni Musarò deposita gli atti durante l’udienza sul caso Cucchi. Dagli atti risulta che, cinque giorni dopo l’arresto di Stefano, l’allora comandante della caserma Vittorio Tomasone avrebbe convocato una riunione con i carabinieri coinvolti nel decesso del giovane

Secondo la testimonianza di Tedesco, a tale riunione avrebbero partecipato: 

il comandate del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro, Luciano Soligo, il comandante di Casilina maggiore Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c’erano il generale Tomasone e il colonello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall’altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all’arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato”.

Il 14 aprile 2019 il pm Musarò chiede il rinvio a giudizio di otto militari dell’Arma: Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo, Luciano Soligo, Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano per falso ideologico; Lorenzo Sabatino e Tiziano Testarmata per omessa denuncia e favoreggiamento, e infine Luca De Cianni per falso ideologico e calunnia.

Il 16 luglio 2019 il giudice del Tribunale di Roma accoglie le richieste e dispone il rinvio a giudizio di tutti gli imputati.

Il 3 ottobre 2019, nella requisitoria del processo per morte di Cucchi, Musarò dichiara: “Stefano non era un tossicodipendente, ci sono prove documentali e testimonianze sul punto. Si allenava da pugile e faceva attenzione all’alimentazione per stare nel peso della sua categoria di combattimento. Le falsità sono state artefatte in una stazione dei carabinieri, ed è di una gravità inaudita”. Per questo motivo, il pm chiede 18 anni di carcere per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro.

Il 14 novembre 2019 i giudici della Corte d’Assise di Roma riconoscono l’accusa di omicidio preterintenzionale in relazione al processo per la morte di Stefano Cucchi, per cui sono sotto accusa 5 carabinieri: i militari Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro vengono condannati ad una pena di 12 anni (il pm Giovanni Musarò ne aveva chiesti 18). Il superteste del processo, e carabiniere sotto processo, Francesco Tedesco, viene condannato a 2 anni e 6 mesi per falso, ma viene assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Il maresciallo dei carabinieri Roberto Mandolini prende 3 anni e 8 mesi, mentre cade l’accusa nei confronti del carabiniere Vincenzo Nicolardi.

Quattro prescrizioni e un’assoluzione, invece, per i medici dell’ospedale Pertini.

Il 7 Maggio 2021 la sentenza d’appello aumenta di un anno, ovvero a 13 anni, la condanna dei due militari Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro dopo l’esclusione delle attenuanti generiche.

Il 4 Aprile 2022 la cassazione, ultimo grado di giudizio nell’ambito del secondo processo per la morte di Stefano Cucchi, conferma in via definitiva per omicidio preterintenzionale la condanna a 12 anni di reclusione per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro.

4-04-2022. Una sentenza storica dopo 13 anni, 3 inchieste e 7 processi…Ora Stefano Cucchi riposa in pace